Tecniche di esecuzione

Se l’icona è il “luogo in cui il mistero si fa presente”, nessun particolare può essere trascurato, neppure il più marginale, anzi è proprio l’estrema fedeltà alla tradizione e la cura dei procedimento tecnici a garantire il legame con il trascendente. L’icona è un oggetto compiuto in se, un microcosmo che ripropone la verità e la perfezione del macrocosmo di cui è riflesso, un tempio alla cui costruzione prodigiosa concorre tutto il creato: l’uomo, gli animali, i vegetali, i minerali e ancora la terra, l’aria l’acqua e il fuoco in un equilibrio misterioso in cui tutto è offerto e sublimato affinché il Bello possa esprimere il Vero. Già la scelta della tavola richiede attenzione, esperienza e conoscenza dei canoni: si deve infatti dare la preferenza a un legno compatto, poco resinoso e privo di nodi, ben stagionato, che permetta una buona conservazione della pittura nel tempo e non diventi facile preda dei tarli. I legni più usati sono il tiglio, la betulla, il faggio, la quercia, il cedro e l’abete a seconda dei luoghi e delle tradizioni, la tavola deve essere intagliata nel tronco in piena massa, il più possibile vicino al centro per garantire la massima solidità, poi lasciata opportunamente stagionare e trattata contro le aggressioni dei parassiti. Per le icone di grandi dimensioni è necessario assemblare più assi, che vengono ancor oggi connesse fra loro a incastro o “a immaschiatura” e fissate con colla e perni di legno, per scongiurare fessurazioni e spaccature. A questo momento è giù stabilito quale sarà la “faccia” della tavola da dipingere: infatti è necessario destinare alla pittura la superficie che era rivolta verso il centro dell’albero, se si vorrà evitare che l’icona nel tempo possa diventare concava e deformarsi; con questo accorgimento potrà accadere che il legno diventi, al contrario, più o meno convesso, assumendo la forma “a coppo” caratteristica di molte icone antiche, ma in questo caso l’immagine risulterà dilatata, non deformata. Per irrobustire la tavola si incastrano sul retro, senza l’aiuto di colle ne chiodi, ma facendole scorrere in solchi rettangolari con bordi “a coda di rondine” delle traverse, spesso in legno più duro, poste perpendicolarmente all’andamento delle fibre, in modo che esercitino trazioni uguali e opposte alla superficie da dipingere. A partire dal XVIII secolo si introduce in Russia anche un altro sistema di rinforzo: due listelli incastrati nello spessore della tavola all’estremità in alto e in basso. Il riscontro di questa pratica permette di datare con certezza le icone del tempo. Dopo aver tagliato, sgrossato e piallato la tavola, si passa all’esecuzione, sulla faccia da dipingere, di un incavo profondo alcuni millimetri (detto kovceg o “culla”), che simboleggia la più profonda intimità con Dio del personaggio raffigurato, che già vive nella dimensione divina. Questo incavo viene eseguito a mano con scalpelli e sgorbie ben affilati, in modo da ottenere una superficie piana e regolare, ma un po’ “mossa”, che consentirà alla fiamma delle candele o delle lampade di creare effetti di luce e di ombre. Eventuali difetti del legno, fessure o errori nell’esecuzione delle fasi precedenti vanno eliminati con stucco o segatura impastata a colla, applicati a spatola. Successivamente si praticano su tutta la tavola incisioni diagonali disposte a griglia e si stendono con un pennello due strati di colla di origine animale (di coniglio o di pesce, meglio se di storione) ben calda. Questa pratica, che gli antichi chiamavano “appretto”, serve a preparare il legno a ricevere l’operazione seguente dell’ “incamottatura”, o intelatura, un altro accorgimento adottato fin dall’antichità per evitare il rischio di fessurazioni, dannose alla superficie dipinta. Si stende cioè sulla superficie della tavola una tela di lino, robusta, e di trama regolare, di misura di poco superiore alla tavola stessa, ben imbevuta di colla calda e la si fa aderire con cura al legno. L’utilità di questa tela è evidente: con tale trattamento lo strato di pittura dell’icona risulterà assai più resistente alle sollecitazioni esercitate dai movimenti del legno, e quindi più protetto da scrostamenti e strappi. Ma c’è anche un preciso ricevimento teologico dietro questa operazione: il ricordo dell’avvenimento miracoloso da cui derivò agli uomini la prima icona, “il volto non dipinto da mano d’uomo” che Gesù stesso consegnò, impresso su lino, ai messi del re Abgar, perché fosse guarito dalla lebbra. Ogni icona infatti trova il suo fondamento in quel Volto, il Volto di Dio fatto uomo. Operazione di fondamentale importanza è poi la preparazione del levkas (dal greco leukos), lo strato bianco che costituisce la base definitiva della pittura. Questo fondo bianco, anticamente impiegato soprattutto a Bisanzio e in tutte le scuole pittoriche dell’area mediterranea, dee essere preparato e steso da mani esperte, per non compromettere il risultato dell’intera opera. È un composto di colla di storione e polvere fine di alabastro o di “bianco di Meudon”, fra loro miscelate secondo ben precise proporzioni, che viene steso caldo sulla tavola con pennello e spatola, in più strati successivi (fino a sette o otto) a distanza di parecchie ore fra loro, perché possano asciugare completamente. Questa preparazione, ideale perché costituisce un fondo omogeneo, piano, assorbente, pronto a ricevere il colore, era praticata anche presso tutte le grandi scuole toscane del Trecento e del Quattrocento. Solo quando la tavola risulterà perfettamente rivestita di questo strato bianco, che dovrà apparire omogeneo, senza buchi ne spessori, o screpolature, la si potrà considerare completamente finita e mettere ad asciugare per qualche tempo in luogo fresco e aerato.

Doratura e pittura

Quando la tavola apparirà ben asciutta, si potrà passare alla sua levigatura, per renderla liscia come avorio. Nel caso si rilevino ancora piccoli difetti è necessario ricorrere a un’accurata stuccatura che li elimini. Ora la tavola passa definitivamente nelle mani del pittore, che abbozzerà innanzitutto il disegno, a mano libera o servendosi di modelli derivati dalla tradizione. Se il fondo deve essere dorato, i contorni delle finiture vengono incisi con una punta, per non perderne il disegno durante l’operazione della doratura. Anche l’operazione della doratura richiede esperienza e conoscenza delle antiche tecniche e dei materia. Il fondo deve essere inizialmente “brunito”, cioè lisciato e lucidato con una punta d’agata; poi viene “pulimentato”, cioè ricoperto con alcuni sottili strati di un composto liquido di terra rossa, sego e colla organica e, una volta asciutto, nuovamente lucidato. Su questa superficie levigata e lucente si applicano con colla diluita sottilissimi fogli d’oro che verranno ancora lucidati e , successivamente, protetti con gommalacca. Nelle icone bizantine, soprattutto destinate alle chiese e alle iconostasi, il fondo era sempre dorato perché l’oro simboleggia la luce increata di Dio, l’atmosfera del Paradiso. Terminati tutti i passaggi della doratura, l’iconografo può iniziare il lavoro della pittura: è questo il momento più importante, che va accompagnato dalla preghiera e dalla meditazione sul mistero divino che nell’icona sarà reso visibile. Anticamente si definiva questa fase iniziale della pittura con l’espressione “apertura”, perché, come il libro delle Scritture deve essere aperto per leggervi la rivelazione di Dio, così anche l’icona si deve aprire per “scrivervi” la storia della Salvezza. Poi ha inizio la preparazione dei colori, secondo antichissime ricette. La tavolozza dell’iconografo è costituita esclusivamente di pigmenti naturali, per la maggioranza minerali, oppure organici di origine vegetale o animale; i colori sintetici oggi in commercio, anche quando riesco a imitare le tonalità dei pigmenti naturali, non possono competere in brillantezza e resistenza con queste preziose sostanze coloranti che l’uomo conosce ormai da millenni. I pigmenti più largamente usati sono le terre o ocre, mescolate ad altri minerali più brillanti e dalla struttura cristallina quali cinabro, lapislazzuli, malachite, azzurrite, ematite, orpimento, realgar e altri ancora, oppure a sostanze organiche di origine vegetale come l’indaco, l’alzarina, il carbone, il “sangue di drago”, o animale come l’avorio, il seppia, il giallo indiano. Queste sostanze vanno naturalmente ridotte in polvere finissima e “legate” con un collante albuminoide come il tuorlo d’uovo o la colla di caseina. Anticamente gli iconografi aggiungevano alle loro mestiche anche miele, resine, gomme, latte di fico, oli essenziali, fiele di bue, birra bollita: si può dire che ogni scuola avesse il suo ingrediente “segreto” per rendere i colori più resistenti e brillanti. Certo è che nessuna tecnica più recente più recente ha potuto eguagliare la freschezza e la luminosità di quei colori, né superarne la tenacia. Terminata la lunga preparazione dei colori, il pittore si accinge alla loro stesura, impiegando pennelli morbidi ed elastici di pelo di scoiattolo o di martora, ancor oggi fatti a mano. Dapprima si stendono i colori di fondo nella tonalità più scura, poi si passa alle vesti, e infine si colora l’incarnato con una mistura di terre e pigmenti di tonalità bruno-verdastra, che i bizantini chiamavano sankir. Successivamente si passa alle “lumeggia ture” sulle vesti, sugli edifici, sugli incarnati, cioè si schiariscono aree sempre più limitate, in modo da creare il senso del volume, come se tutto fosse illuminato dall’interno. Gli ultimi tratti, cioè i punti di massima luminosità, vengono sottolineati con bianco quasi puro, mentre i volumi delle vesti sono spesso ricoperti da sottili tratti d’oro, l’assist.

I rivestimenti metallici

Nel X secolo compaiono a Bisanzio le prime lastre ornamentali lavorate a sbalzo, poi adottate nella regione di area slava più influenzata dalla cultura della capitale dell’impero, la Georgia. Queste coperture di icone, soprattutto a partire dal XV secolo, erano eseguite dai più valenti orafi di corte, che operavano a Mosca al servizio del Gran Principe. La loro maggior fortuna si ebbe però nel XVIII secolo e raggiunse l’apice nel XIX, tanto che si dipingevano icone in funzione della copertura e ci si limitava ad abbozzare un disegno delle parti che sarebbero rimaste coperte. Fino al XVII secolo la copertura più diffusa era la basma, una striscia lavorata a sbalzo o a niello, che incorniaca l’icona lasciando completamente scoperta l’immagine. Una copertura che invece la nasconde parzialmente è la oklad, un ricco rivestimento che si estende anche sul fondo e sui nimbi. La copertura più ampia è la riza, che lascia scoperti solo volti, mani e piedi. A volte sulla riza venivano applicate altre coperture in rilievo, come la tsata, un pettorale a forma di mezzaluna, oppure delle corone o delle mitre. Questi raffinati lavori di oreficeria erano spesso arricchiti da pietre dure o preziose e da perle, oppure finemente decorati con filigrana o smalti policromi (cloisonné agli angoli e sulle aureole). L’arte orafa russa raggiunge il culmine nel secolo scorso, grazie anche all’influsso di Fabergè, indiscusso maestro mondiale, che creò centri di produzione orafa a San Pietroburgo, Mosca e Odessa. Per datare le coperture metalliche è necessario saperne riconoscere i motivi floreali, che variano nel XV e XVI secolo; dai primi decenni del XVII compaiono i primi punzoni di Stato. Sotto il regno di Pietro il Grande, nel febbraio del 1700 divenne obbligatoria a norma di legge la punzonatura dei metalli preziosi e orafi e argentieri dovettero entrare in specifiche corporazioni, i punzoni più frequentemente reperibili sulle icone dei secoli XVII e XIX contengono vari elementi di certificazione; lo stemma della città di origine, la data di fabbricazione, il bollo con le iniziali del saggiatore ufficiale, il titolo dell’argento impiegato e talvolta anche il bollo personale con le iniziali o il nome del maestro orafo, in caratteri cirillici o latini a seconda che fosse russo o straniero. Soltanto nel 1896 fu adottato un unico punzone, valido per tutta la Russia, una testina femminile rivolta a sinistra con il titolo dell’argento e le iniziali dei saggiatori dei maggiori centri di produzione orafa russi. Nel 1908 la testa femminile fu rivolta verso destra. Sulla copertura i bolli si riscontrano generalmente sul ripiano inferiore.